Riflessioni

Chiudi quella bocca

Il 29 Agosto 1952, a New York, durante un recital di pianoforte contemporaneo, il musicista David Tudor sedette allo strumento per eseguire l’ultimo lavoro del compositore John Cage (1912-1992): 4’33”.

Tudor prese posto sul panchetto di fronte al pianoforte, girò le pagine dello spartito, chiuse la ribaltina, e…

non fece assolutamente nulla. Per quattro minuti e trentatré secondi.

Perché questa è, di fatto, 4’33”: una non-esecuzione. Nessuna nota suonata, e nessun tasto premuto sullo strumento (il quale, per inciso, può essere di qualsiasi tipo… dal momento che non viene usato!).

Roba da orinatoio

E’ facile immaginare i commenti feroci di chi negli anni avrà assistito alle esecuzioni di 4’33”.

Frasi di questo tipo, cioè:

“Ma che cretinata!, spacciare quattro minuti di silenzio per una composizione musicale! La solita “trovata” da “artista” moderno… tipo quella del tizio che inscatolava la sua cacca e la vendeva come opere d’arte! Oppure quell’altro che tagliava le tele col cutter! E non parliamo del capofila, quello che esponeva gli orinatoi nei musei! Sarà mica una roba seria, questa!“.

Marcel Duchamp, ‘Fountain’, 1917 (Wikipedia)

Esco fuori dal coro

Io la penso diversamente, però. Perché nutro rispetto per l’arte moderna o concettuale, intendendo quel tipo di disciplina artistica che rende merito più all’idea (il concetto appunto) che alla realizzazione.

Forse non farà spalancare gli occhi di meraviglia come un dipinto impressionista; ma fa riflettere… e non mi pare poco (specie di questi tempi).

Eppoi diciamocelo sinceramente: qualunque idea sembra sempre ovvia, quando qualun altro ci ha già pensato per primo. Come scrive Francesco Bonami nel suo ottimo libro “Lo potevo fare anch’io”, è il concetto dell’uovo di Colombo: una volta che ci hanno spiegato come si fa, sembra proprio banale. Pensarci per primi, però, è tutta un’altra storia.

L’importanza del vuoto

Ma torniamo a 4’33” (o “Four thirty-three” come viene comunemente chiamata).

Lo spartito di 4″33′, ‘per qualunque strumento’

Qual’era lo scopo che si prefiggeva John Cage?

Lo spiegò egli stesso:

Non esiste il silenzio.

Quello che credevano fosse silenzio, poiché non sapevano come ascoltare, era pieno di suoni incidentali.

Durante il primo movimento, si poteva sentire il vento che soffiava all’esterno.

Durante il secondo movimento, gocce di pioggia cominciavano a picchiettare sul tetto; e durante il terzo, la gente stessa produceva ogni genere di suono interessante – parlando o uscendo dalla sala.

Un vero e proprio universo di suoni molto complesso e variegato, insomma. Del quale si può avere esperienza solo ascoltando … Similmente a un recipiente che può essere esaminato con cura internamente, solo una volta che è privo del proprio contenuto.

L’esecutore (il musicista), qui, diventa solamente un tramite. Non ha alcun tipo di controllo… al contrario di quando suona uno spartito “comune”, e può imporre il suo tocco e la sua tecnica.

Nella meditazione è una sensazione analoga: si sperimenta il “vuoto di realtà”… Non inteso come “assenza”, ma come “infinito di possibilità”.

Una parabola Zen

Come avrà ben intuito chi consoce il buddhismo Zen, Cage ne fu un grande studioso.

Ecco un piccolo koan (parabola) che lui stesso racconta nel suo libro “Silence: lectures and writings”, e che enfatizza il concetto:

Dopo un viaggio lungo e difficile, un giovane uomo giapponese arrivò nella profondità di un bosco dove – in una piccola casa autocostruita – viveva il maestro che si era scelto.

Quando lo studente arrivò, il maestro stava spazzando le foglie cadute.

Lo studente gli porse i suoi saluti, ma lui non ricambiò.

E a tutte le domande dello studente, non c’erano mai risposte.

Avendo realizzato di non poter fare nulla per richiamare l’attenzione del maestro, lo studente si recò in un’altra parte della medesima foresta, e costruì anch’egli una casa.

Anni dopo, mentre stava spazzando le foglie cadute, fu illuminato.

Lasciò tutto, corse attraverso la foresta dal suo maestro, e gli disse: “Grazie”.

Certo: il maestro avrebbe forse fatto prima a sbottare dopo l’ennesima domanda e dire “Ma perché non chiudi la bocca e apri la mente, amico mio?”.

Sarebbe stato, però, un approccio didattico molto meno efficace.

Il silenzio cambia le percezioni

“Chiudere la bocca” mi sembra, in definitiva, un consiglio molto sensato.

Ecco un altro aneddoto raccontato dallo stesso John Cage (fonte: Brain Pickings).

Vi ho fatto caso a New York, dove il traffico è così mostruoso e l’aria così irrespirabile… entri in un taxi, e molto spesso il povero tassista è già fuori di sé dall’irritazione.

Un giorno entrai in un taxi e il guidatore era un fiume di parole, accusando proprio tutti di essere nel torto.

Capisci, era pieno d’ira verso tutto e tutti, e io rimasi semplicemente in silenzio.

Non risposi alle sue domande, non entrai nella conversazione; e in breve il guidatore cominciò a cambiare le proprie idee… e, semplicemente grazie al mio silenzio, cominciò – prima che io lasciassi il taxi – a dire cose piuttosto belle sul mondo che lo circondava.

Il silenzio può cambiare il mondo? Magari no.

Ma ascoltarsi, forse, sì.

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