Questa è una trascrizione dell’episodio che si può ascoltare (insieme con le canzoni inframezzate al parlato) sul mio podcast, “Groove Stories”, a questo link:
Emozioni, prima di tutto
Ma perché, dico io?
Perché storie tragiche come quella di Whitney Houston, si sono ripetute così spesso nel mondo dello spettacolo?
Un talento cristallino; una carriera fantastica; il consenso del pubblico e della critica… E poi una spirale autodistruttiva, che conduce al peggior finale immaginabile.
Quanti esempi di questo tipo vi vengono in mente?
E il colore della pelle, qui non c’entra: pensiamo per esempio ad Amy Whinehouse.
Però… però non possiamo solo parlare della fine.
Non possiamo tacere le emozioni!
Esiste forse un regalo più prezioso di questo?
E Whitney Houston, di emozioni, ne ha donate – e ancora ne dona – tantissime.
Ma cominciamo dall’inizio.
Di fulminanti esordi, e rinunce
Sono convinto che, se mai esiste la ricetta del grande artista, il talento non sia l’unico ingrediente necessario.
Sì certo, ci vuole anche il lavoro duro; ma quello, viene dopo.
Prima, esiste un altro fattore determinante: il contesto in cui l’artista cresce e si sviluppa.
Chissà quante persone di talento non hanno potuto esprimere il loro DNA, per colpa di un contesto che non gliel’ha permesso o è stato castrante!
Quando – il 9 Agosto 1963 – Whitney Houston viene al mondo a Newark (8 chilometri a ovest di Manhattan), il suo contesto è eccellente – se si parla di canto.
La madre, Emily Drinkard detta “Cissy”, è una cantante professionista, che incide cori nei dischi di Aretha Franklin ed Elvis Presley tra gli altri. Cissy è anche la zia della cantante Dionne Warwkick, giusto per dire.
In famiglia, Whitney viene soprannominata “Nippy”, dal nome di un personaggio dei cartoni animati che si ficca spesso nei guai. Un soprannome e un destino, direi.
In fatto di talento, la piccola Nippy non ha rivali.
Ha solo undici anni quando si esibisce come solista alla New Hope Baptist Church in Newark, New Jersey, dove la madre Cissy dirige il coro gospel, e lo zio suona l’organo.
C’è un episodio, relativo alla sua primissima esibizione, che merita di essere raccontato in quanto dimostra come la ragazzina fosse già estremamente determinata e concentrata. Ma non eri emozionata?, tutte quelle persone che ti ascoltano?, le chedono. E lei risponde:
“Ah, non ci ho nemmeno pensato. C’è un orologio, sul fondo della chiesa. Ho fissato i miei occhi su quell’orologio, poi li ho chiusi, e poi ho fatto quello che dovevo fare”.
In casa Houston, comunque, a portare i pantaloni è Cissy. Il padre di Whitney, John, non ha grande voce in capitolo, e di fatto fa il casalingo… almeno sino alla separazione dalla moglie, nel 1977.
Cissy, poi, ha già organizzato la vita della figlia; e deciso che, in ogni caso, lei dovrà finire il liceo – prima di avviarsi alla carriera professionistica.
Ma non è certamente una studentessa modello, Whitney… anche perché viene talvolta bullizzata dai compagni di liceo per il colore della pelle un po’ chiaro: la chiamano “Whitey”, “bianchiccia” – soprannome che tornerà fuori anche in futuro, ad opera della critica più spietata.
Quando compie quindici anni, Cissy comincia a portare la figlia con sé nei club dove si esibisce dal vivo, e in sala di registrazione. Nel 1978, la giovanissima Whitney partecipa alla registrazione dei cori in “I’m every woman” di Chaka Khan.
E’ precoce in tutto, Whitney, e non solo nelle cose belle e utili per lei. Quando ha quattordici anni, prova la cocaina per la prima volta. In adolescenza ne farà uso sporadico, ma solo perché non può ancora permettersela.
Oltre ad avere una voce fenomenale, Whitney è anche considerevolmente bella. Infatti viene notata da un fotografo di moda mentre lei accompagna sua madre a un concerto, e immediatamente contattata da un’agenzia.
Finisce per avviare una carriera di modella per vari magazine, come Cosmpolitan, Seventeen, Glamour. Recita anche in alcuni spot pubblicitari.
Cissy, che ben sa quanto sia impegnativa la vita per un cantante, vede per ora di buon occhio questa carriera nella moda: almeno, la ragazzina porta soldi in casa, e non fa tardi la notte.
Finalmente, nell’Aprile 1983, Whitney firma il suo primo contratto da professionista per la Arista Records.
Si tratta della casa discografica fondata da Clive Davis, ossia uno dei più importanti produttori di sempre, colui che ha scoperto Janis Joplin, Sly & The Family Stone, Bruce Springsteen, Aerosmith, ovviamente Dionne Warwick, e tanti altri.
Clive Davis sa di avere per le mani un talento purissimo, che non va sprecato nella fretta di confezionare un album con materiale scadente.
Ci vorranno quindi due anni per far sì che il primo disco solista di Nippy veda la luce. Esce il giorno di San Valentino del 1985, e si chiama semplicemente “Whitney Houston”.
In studio, lei dimostra di essere già una cantante molto navigata. E questo non sorprende, dal momento che ha passato la sua adolescenza proprio in quegli ambienti, a contatto con i migliori. Durante le registrazioni del disco, si guadagna il soprannome “Whitney Buona La Prima”, perché azzecca alla perfezione i brani subito al primo “take”.
Le critiche al disco sono molto positive, anzi la rivista Rolling Stone dichiara che la 21 enne Whitney è “Una delle nuove voci più entusiasmanti degli ultimi anni”.
Nel 1986, alla ventottesima edizione dei Grammy Adwards, Whitney si aggiudica il primo di una lunga serie di premi: la statuetta di “Best Pop Vocal Performance Female” per la canzone “Saving All My Love for You”.
Un esordio fantastico, questo primo disco; che però sta soltanto preparando il terreno ad un secondo album ancora più fenomenale: si chiama “Whitney”, e viene pubblicato nel Giugno 1987.
Diventa un vero blockbuster, e contiene alcune delle sue maggiori hit di sempre, come “I wanna dance with somebody”.
Il disco vende oltre venticinque milioni di copie in tutto il mondo, di cui un milione in Italia.
Nippy è diventata una star!
Una star dalla vita semplicissima, però.
Ama vestire abiti sportivi (tuta, sneakers), ha abitudini semplici, e non ha molti amici. In merito a quest’ultimo punto, lei dirà:
“Quando ho deciso di fare la cantante, mia madre mi ha avvertito che sarei rimasta molto sola. Fondamentalmente, lo siamo tutti. La solitudine arriva insieme alla vita.”
Ha però un’amica del cuore, Whitney: un personaggio che sarà molto importante nella sua vita.
Si chiama Robyn Crawford, ha tre anni in più, e si sono conosciute nel 1980 quando entrambe lavoravano come animatrici estive.
Avevano legato immediatamente… fumando insieme le prime canne… sniffando occasionalmente qualche riga di cocaina… e – come racconta la stessa Robyn nella sua autobiografia del 2019 – avendo una relazione omosessuale all’inizio degli anni ‘80. Era stata Whitney a volerla interrompere, temendo ricadute sulla sua carriera. Le disse:
“Se la gente sapesse, non ci lascerebbe mai in pace”.
Inoltre, Whitney era anche molto religiosa, e pensava che la loro relazione fosse “sbagliata”. Quando si lasciano, Nippy regala a Robyn una Bibbia, e le dice che la loro condotta le avrebbe portate all’inferno.
Le due restano però molto legate, tanto che Robyn Crawford diventa prima la sua Assistente Personale, e poi la sua Direttrice Artistica, fino al nuovo millennio – come vedremo.
Tra il 1986 e il 1987, Whitney è impegnata nel suo primo tour mondiale: “The Greatest Love of All” tour (dal nome di una delle varie hit estratte dal primo album). 35 spettacoli in America e in Canada, più altri concerti in Europa, Giappone, ed Australia.
Purtroppo, e come spesso succede, queste situazioni si portano dietro anche tanta droga. Qualcuno lo rinomina “The Greatest Drug Tour”.
Robyn Crawford, che in quel momento è l’assistente personale di Whitmey e la sua seconda ombra, è preoccupata; e ne parla con la madre di lei, Cissy.
Le dice: quella roba le piace troppo; io sono in grado di limitarmi, ma lei non ci riesce.
Cissy risponde gelidamente: “Apprezzo che tu me lo abbia detto”. E finisce lì.
Nel 1989 Whitney partecipa ai Soul Train Music Awards, cerimonia annuale che premia il meglio della cultura, della musica e dell’intrattenimento afroamericano. Whitney si aggiudica il premio Quincy Jones per “Eccezionali risultati di carriera”.
Non è una serata semplice, per lei, perché la platea non le risparmia qualche “Boooo”: alcuni la ritengono “troppo pop” e “non abbastanza soul” (o, il che è peggio, “troppo bianca”).
Ma Whitney non fa nemmeno troppo caso a questi brusii.
E non solo perché è un’artista determinata e sicura dei suoi talenti – ma anche perché è distratta da altro.
Infatti, il suo sguardo è rimasto rapito da uno degli artisti presenti: un bel ragazzone spavaldo, dal fascino magnetico. Si chiama Bobby Brown.
Ma ci arriviamo tra poco.
Dal Superbowl alla Guardia del Corpo
Nell’autunno 1990 esce il terzo album di Whitney: “I’m your baby tonight”.
Le sonorità – forse venendo incontro alle critiche – sono più funky, più “black”.
Il brano che da’ nome all’album, diventa un classico istantaneo.
Sino ad ora non ci siamo soffermati molto a parlare della voce di Whitney, ma adesso è proprio il momento giusto per farlo.
Il 27 Gennaio 1991, infatti, Whitney viene chiamata ad eseguire l’inno nazionale americano a Tampa, in Florida, prima del Venticinquesimo Super Bowl che vedrà sfidarsi i Buffalo Bills contro i New York Giants.
Siamo in piena Guerra del Golfo. I settantottomila spettatori del Tampa Stadium grondano di emozione da tutti i pori, pronti a sentire le parole di un inno che parlano di “bagliore rosso del razzo” e “bombe che scoppiano in aria”.
Quando sale sul palco davanti all’orchestra, Whitney è bellissima, anche nella sua tuta bianca Le Coq Sportif di una taglia più grande.
“The Star-Spangled Banner”, l’inno nazionale, è un brano dalla difficoltà considerevole, che spazia su 19 semitoni. Ma appena Whitney apre la bocca, accade la magia.
Non è solo un’esecuzione tecnicamente perfetta: è emozione pura… Sparsa a fiotti, con una sicurezza e naturalezza impressionanti. E non manca la specialità della casa: il suo passare, con grande naturalezza, da un registro centrale a un falsetto perfetto.
La sua esecuzione contiene un’inflessione pesantemente black, che la connette spiritualmente con i tanti soldati afroamericani che hanno dato e stanno dando la vita per il paese.
Il suo viso resta emana fiducia e radiosità, ed esplode di gioia durante la nota finale, mantenuta per undici secondi.
Quanto avrei voluto essere presente in quello stadio! E pensare che ci fu chi, stupidamente, l’accusò di aver cantato in playback!
Dopo questa parentesi emozionante, però, tocca venire via dal “Pianeta Nibby” e tornare sul pianeta Terra.
Perché dobbiamo parlare di Bobby Brown.
A dire il vero, quando Whitney lo conosce e ne rimane folgorata, lei stava uscendo con Eddie Murphy. Ma poco dopo tronca subito la relazione col “Beverly Hills Cop”… perché lei non vuole una star ricca e famosa, non vuole uno specchio di se stessa. Lei vuole l’uomo cattivo.
Ma chi è Bobby Brown?
Fondatore, quando aveva dodici anni, del gruppo vocale R&B “The New Edition”, Bobby Brown ha in seguito una carriera solista di moderato successo. Nel 1988 era uscito il singolo “My prerogative”, che sarà il suo apice di carriera (niente di memorabile, sia chiaro… anche se si apprezza il tentativo di coniugare l’hip-hop col rhythm and blues).
Quando si conoscono, Bobby ha sei anni meno di Whitney, e già tre figli con altre donne (che non ha mai sposato).
Soprattutto, però, Bobby Brown è un autentico str******* no va bene, diciamo una persona instabile, violenta e pericolosa. Che oltre tutto predilige le droghe, ed ha quindi un pessimo ascendente su chi gli sta accanto. Quando lui sarà in giro, Whitney diventerà incapace di mettersi un freno.
Ma… come diceva il mio amico Pierluca detto Rommel: i bravi ragazzi piacciono alle mamme, non alle figlie.
Whitney Houston e Bobby Brown si sposano nel Luglio 1992.
E se il buongiorno si vede dal mattino, le cose cominciano malissimo già dal viaggio di nozze.
I due sposini volano in Italia per fare una crociera a bordo di uno yacht privato lungo la costiera amalfitana. Sono in compagnia di un’altra coppia: il fratello di lei, Michael, e sua moglie. Perché mai due sposi debbano trascorrere la loro luna di miele con un’altra coppia, è un mistero… Ma tant’è.
A un certo punto, papà John Houston riceve una chiamata dallo yacht: qualcosa è andato storto, i due sposi hanno litigato di brutto e stanno tornando a casa.
Al suo arrivo negli Stati Uniti, Whitney esibisce un taglio di sei centimetri sul viso, dalla guancia alla mascella. Quando Robyn le chiede cosa sia successo, Whitney risponde che lei e Bobby hanno discusso; allora ha lanciato un bicchiere, che s’è rotto, e un frammento l’ha ferita alla guancia.
Non le crede nessuno. Ma intanto la truccatrice di Whitney, Roxanna, avrà il suo daffare per nascondere il taglio sotto un pesante make-up.
Se il matrimonio comincia male, va detto che la carriera di Whitney invece prosegue benissimo.
Sempre nel 1992, lei aggiunge un’altra perla ai suoi talenti di cantante e di modella: dopo un lungo corteggiamento di Kevin Costner, accetta di recitare al suo fianco nel film “La guardia del corpo”. Lo abbiamo visto tutti, questo film… e tutti ricordiamo quanto lei sia incredibilmente gnocca, e altrettanto incredibilmente brava. Perché Whitney era così: quando si metteva in testa di fare qualcosa, la portava fino in fondo e bene. Anche se non amava troppo fare l’attrice, un ruolo che la metteva a disagio. Quando deve filmare la scena di amore con Kevin Costner, gli dice:
“Qualsiasi cosa tu faccia, però non infilarmi la lingua in bocca”.
La colonna sonora del film, va da sé, diventa un successo al pari e più del film. Anche perché contiene QUEL brano… “I will always love you”.
Non è un brano originale, scritto per lei: si tratta della cover di una ballad country (quindi “bianchissima”) incisa da Dolly Parton nel 1974.
Ecco: Picasso diceva che i bravi artisti copiano, mentre i grandi artisti rubano. Cioè i grandi artisti non si limitano a “duplicare” l’oggetto del ratto, ma lo “fanno proprio” mettendoci del loro, insomma producono un risultato personalissimo e in definitiva originale.
Whitney, che è una grande artista, prende questo brano e – senza stravolgerlo – lo trasforma: da ballad “bianca” a gospel nero.
E lo fa con la solita tecnica vocale impressionante… che non è MAI fine a sé stessa (ed è questo il suo grande merito) ma finalizzata ad emozionare, a trasportare chi ascolta su un altro pianeta: il pianeta Nippy, appunto.
“I will always love you” raggiunge il primo posto della classifica americana, e ci resta per quattordici settimane di fila.
Il 4 Marzo 1993 nasce Bobbi Kristina Brown, l’unica figlia di Whitney Houston e Bobby Brown.
Nasce proprio nel bel mezzo del “The Bodyguard World Tour”, che la Houston non interrompe, ed anzi balza sul palco poco dopo il parto. Ma come ci riesce?, si chiedono in tanti. Un motivo, purtroppo c’è… e corre voce sia artificiale, sintetico, bianco.
Ad ogni modo, il 7 Febbraio 1994 Whitney partecipa all’American Music Awards, e ritira i ben otto premi vinti ringraziando la platea, con Bobbi Kristina in braccio. E dice:
“Non potevo lasciarla da sola, ha iniziato a piangere!”.
E Bobby? Diventa sempre più instabile e violento.
Nell’Aprile 1995, lui e il suo bodyguard vengono arrestati per aver picchiato a sangue un uomo in un night club del Walt Disney World. All’uomo dovettero riattaccare chirurgicamente parte dell’orecchio destro. Le accuse vennero ritirate a fronte di un danaroso patteggiamento; ma questo arresto non sarà un caso isolato.
Frequenze sforbiciate
Nel 1998, dopo otto anni dedicati alla carriera di attrice ed ai concerti dal vivo, Whitmey torna in studio di registrazione e fa uscire il suo quarto album: “My love is your love”. Un disco che ha un’impronta hip-hop tale da differenziarlo sensibilmente dai precedenti.
Il singolo “It’s not right but it’s ok”, che sentite in sottofondo, sembra quasi un “desiderata”.
Il testo recita: “Non è giusto / Ma va bene / Ce la farò comunque / Prepara le valigie e parti / E non osare tornare di corsa da me”.
Sì, perché la vita coniugale di Whitney e Bobby è sempre più drammaticamente (direi cronicamente) caratterizzata dai comportamenti violenti di lui. Il fatto che la tradisca con regolarità, è anche il meno.
Un giorno, all’hotel Ritz-Carlton di Atlanta, Bobby si rifiuta di aprire la porta alla moglie. E quando alla fine lo fa – esasperato dal continuo bussare di Whitney – per tutta risposta le sferra un pugno in faccia. Mentre Whitney crolla a terra piangendo, Bobby torna tranquillo in camera, afferra un bicchiere di vetro, e lo scaglia verso la moglie. Per fortuna manca il bersaglio. Finalmente interviene la guardia del corpo di Whitney, che la trascina via, la carica su una macchina, e si mette alla guida verso l’aeroporto. Ma lei chiede di tornare da Bobby. E successivamente licenzia quel bodyguard.
Come tante donne purtroppo vittime di violenza, Whitney “torna”.
E la chimica tossica di questo rapporto consuma lentamente, ma inesorabilmente, la sua riserva di autostima, gettandola ancora più a fondo nel tunnel della droga.
A farne le spese è anche la piccola Bobbi Kristina, ormai abituata a sentirsi dire che la mamma è stanca o sta dormendo.
Insomma: se “My love is your love”, il disco del 1998, è considerato l’inizio del declino musicale di Whitney, è il caso di dire che la sua vita personale e professionale segue a ruota.
E’ a questo punto, all’inizio del nuovo Millennio, che Whitney comincia anche a bidonare gli inviti più prestigiosi: una cosa che NON SI FA, quando sei così famosa e per giunta l’ideale della brava ragazza americana che lavora sodo.
Salta un evento alla Rock and Roll Hall of Fame in New York, in onore del suo produttore Clive Davis; e non si presenta neanche ai Soul Train Awards. Arriva tardi alle interviste, non va alle sessioni fotografiche.
Va invece alle prove per l’Academy Awards, dove il 6 Marzo 2000 è prevista la sua esibizione in un medley di artisti famosi, insieme – tra gli altri – a sua cugina Dionne Warwick.
Ma sarebbe stato meglio se avesse bidonato anche quell’evento.
Quando Whitney arriva alle prove, è in uno stato di forma talmente osceno, che Burt Bacarach – direttore musicale di quella performance – ne chiede la sostituzione.
E’ uno smacco personale e professionale notevole.
Ma c’è di peggio.
Lo stesso anno, termina malamente anche il rapporto professionale e amicale con Robyn Crawford, la sua amica dell’adolescenza e direttrice artistica, colei che si era sempre preoccupata per lei.
Succede che Whitney deve registrare un disco insieme a George Michael, ma non si presenta in sala di registrazione, anzi si rende irreperibile.
Robyn, d’accordo con Clive Davis, compra a George una camicia in segno di scuse e rispetto.
Il cantante accetta il dono; fa spallucce; e se ne torna in Inghilterra.
Qualche giorno dopo, Robyn incontra i coniugi Houston, e racconta a Whitney di aver messo a posto le cose con George Michael attraverso un regalo di scuse.
Bobby sbotta: “Ma sei completamente fuori di testa? Tu non compri a un uomo un regalo da parte di mia moglie!, sei impazzita?”.
A quel punto Whitney interviene e dice:
“Scuse? Ma per che cosa?”.
Per Robyn, questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Capisce di averli contro; capisce che Nippy “non capisce”; capisce che non può più fare nulla per lei.
Dopo due decadi in cui – per usare le stesse parole di Robyn – lei e Whitney sono state amiche, amanti, complici, e colleghe, la Crawford sbatte la porta e se ne va. Portandosi via, forse, quel brandello di ragionevolezza rimasto nel suo entourage.
Poco dopo quell’episodio, l’Arista Records fa uscire il disco “Whitney: The Greatest Hits”.
Anche se commercialmente rende benissimo, non è mai un bel segno, quando viene pubblicato un album di grandi successi: nella maggior parte dei casi, significa che la parte migliore della carriera è dietro alle spalle.
Le cronache di quell’anno narrano di coca party organizzati dai coniugi Houston insieme al proprio entourage, in stanze d’albergo, ovunque si spostino, e senza neanche preoccuparsi dopo di mettere a posto. Ormai, anche le cameriere possono toccare con mano la china discendente della coppia.
In Agosto, Bobby ci lascia quasi le penne: crolla nel salotto di casa, col cuore in fibrillazione per l’eccesso di droghe. Whitney chiama il 911, e Brown si salva per il rotto della cuffia. Subito dopo, esce il suo – di “Greatest Hits”.
C’è tempo per un paio di altri dischi di Whitney non memorabili (”Just Whitney” del 2002, ed una raccolta di brani natalizi l’anno dopo) prima di arrivare finalmente alla rottura della coppia: nel 2007, Whitney Houston e Bobby Brown divorziano. Lei ottiene la custodia della figlia quattordicenne Bobbi Kristina, e si affida ad un vocal coach per cercare di ripristinare i danni fatti dalla sregolata vita dell’ultimo decennio.
Sembra, in effetti, un nuovo inizio.
Nel 2009, quando Whitney ha 46 anni, esce “I look to you”: quello che – ma ovviamente lei non lo sa – sarà il suo ultimo album.
“I look to you” vende tre milioni di copie, è un successo di critica, ed è in effetti un disco bellissimo.
Il singolo “Million dollar bill”, che ascoltate in sottofondo, è scritto e prodotto da Alicia Keys, e raggiunge – in molti paesi – la classifica dei primi dieci dischi più venduti.
Ma la timbrica della voce di Whitney non è più quella.
La tecnica, c’è ancora… ma è come se qualcuno avesse sforbiciato via, dalla sua voce, alcune delle sue magiche frequenze… tagliando quella chiarezza cristallina che il pubblico aveva tanto amato.
Se la voce la sta abbandonando, i suoi demoni – purtroppo – invece sono ancora lì. Non è stato sufficiente liberarsi di Bobby Brown, né lo sarà entrare e uscire da vari centri di “Rehab”.
L’ultimo giorno
E arriviamo all’ultimo giorno di vita di Whitney Houston.
Il 12 Febbraio 2012, viene invitata ad un party al Beverly Hilton Hotel di Los Angeles. E’ una festa che anticipa i Grammy Awards, organizzata dal suo solito produttore e mentore Clive Davis.
Whitney non ci arriverà.
Il giorno prima, infatti, viene trovata esanime nella vasca da bagno della sua camera di quell’albergo, a faccia in giù, nell’acqua.
Nonostante una rianimazione cardiopolmonare durata dieci minuti, Whitney non riprende più a respirare.
Viene dichiarata morta alle 15:55 del giorno 11 Febbraio 2012. Ha 48 anni.
Ufficialmente, la causa della morte viene imputata ad un annegamento accidentale, con fattori contribuenti quali problemi cardiaci, e uso di cocaina. I polmoni erano pieni di acqua, ad indicare che Whitney era ancora viva, al momento in cui è finita con la faccia sotto l’acqua. Il patologo forense trova segni di intossicazione acuta da cocaina nel suo organismo… ma questo non sorprende.
I funerali vengono celebrati 18 Febbraio nella New Hope Baptist Church di Newark, la stessa chiesa dove era cominciato tutto, quella dell’orologio sul fondo e della sua prima esibizione da solista.
Partecipano Clive Davis, Kevin Costner, Stevie Wonder, Alicia Keys, naturalmente Dionne Warwick… e Bobby Brown, che si fa notare per la richiesta (negata) di sedere nei posti destinati ai familiari.
I presenti ascoltano Whitney cantare l’intro a capella di “I Will Always Love You”, mentre la bara dorata ricoperta di rose argentate viene sollevata dai portatori e trasportata lungo la navata.
Whitney viene sepolta al Fairview Cemetery, in New Jersey.
La sua lapide reca la scritta “The Voice”, e – più sotto – “I will always love you”.
Ma questa storia ha un seguito ancora più agghiacciante. Di quelli che non ti aspetti… anche se, quando te lo raccontano, ti viene quasi da pensare che sia infondo logico, sia una sorta di inevitabile e maligno gioco del domino.
Tre anni dopo la morte di “The Voice”, il 31 Gennaio 2015, Bobbi Kristina Brown – la figlia di Whitney e Bobby – viene trovata esanime nella vasca da bagno della sua abitazione, in Georgia.
Anche lei è a faccia in giù, in pochi centimetri di acqua.
Questa volta i soccorsi riescono a riportarla in vita, ma la ragazza non riprende più conoscenza.
Muore in un hospice il 26 Luglio 2015, sei mesi dopo il ritrovamento. Aveva 22 annni.
Conclusione
Whitney Huston era in grado di “muovere” le persone attraverso le canzoni. Chiunque può, in qualunque momento, atterrare sul “Pianeta Nippy” ed emozionarsi al suono della sua voce.
Eppure, Whitney non è stata in grado di “muovere” la persona più importante, ossia se stessa.
La sua vita, da subito, è stata una vita “compressa”. Subordinata alle aspettative degli altri, alla vergogna, alle rimozioni.
Come dire: il “questo non si fa“, andava sempre prima del “questo lo dovrei fare”. Altrimenti, sarebbero arrivati i sensi di colpa. E sappiamo che i sensi di colpa sono sabbie mobili che trascinano verso un’esistenza diversa da quella che vorresti per te e per chi ti sta intorno.
Se c’è una lezione che si può imparare dalla vita di Whitney, è che perseveranza e determinazione vanno applicate non solo al conseguimento degli obiettivi, ma anche e soprattutto al volersi bene, a quello che è giusto e meglio per ciascuno.
Perché se non salviamo noi stessi, non riusciremo a salvare neanche coloro che dipendono da noi… Come è stato per Bobbi Kristina.
A questa lezione, forse possiamo aggiungerne anche un’altra:
E’ inutile cercare di salvare qualcuno che non è disposto a partecipare al proprio salvataggio.
Bibliografia
- “Whitney Houston: tragic diva”, David Cline, ed. Backpack bios
- “A song for you: my life with Whitney Houston”, Robyn Crawford, ed. Dutton
- “Whitney Houston: a life from the beginning to end”, ed. Hourly History.
- Pagine internet varie.