Riflessioni

Non facciamo come Jim Fixx

Il mio scopo?

Primo, introdurvi nel magico mondo del running.

Secondo, cambiare le vostre vite.

(Jim Fixx, introduzione di “The complete book of running”)

Di tutti gli esempi su come la vita sia imprevedibile e le nostre armi spesso si ritorcano contro noi stessi, quello di James Fuller “Jim” Fixx mi sembra altamente illuminante.

Visto che il lavoro è parte della vita, non meravigliamoci se tutte le nostre sicurezze (gli strumenti, le competenze, i riconoscimenti che abbiamo ricevuto…) non ci proteggono da scivoloni colossali e magari pure “mortali”.

La moda del running

Se siete mai stati a New York (ma basta guardare i film hollywoodiani) avrete sicuramente notato che in Central Park corrono tutti come matti. Ma sul serio: tiri un sasso, e prendi uno che sta facendo running.

Ebbene, fu Jim Fixx (nato proprio a New York nel 1932) ad aver introdotto questa moda, grazie al suo bestseller “The complete book of running”, pubblicato nel 1977.

Ha venduto oltre un milione di copie: tantissime, per un libro di non narrativa.

La copertina è un selfie delle gambe muscolose di Fixx… che aveva iniziato a correre dieci anni prima, quando pesava 110 chili e fumava due pacchetti di sigarette al giorno.

Come un brano della Morissette

Jim Fixx non è più tra noi: è morto nel 1984 all’età di 52 anni. Mentre stava facendo running.

Ebbene sì: dopo aver scritto cinque libri sulla corsa e completato diverse maratone, Fixx è stato stroncato da un infarto lungo la statale dove si stava allenando. Sembra un verso della bellissima canzone “Ironic” di Alanis Morissette, eppure è proprio vero.

Ma le vere sorprese vennero dall’autopsia[1]: Fixx aveva una coronaria completamente bloccata, e un’altra chiusa all’80%. Insomma, non si trattò di una fatalità. Anche se aveva perso peso e smesso col fumo, l’esercizio continuativo non poteva sistemare una evidente predisposizione di origine genetica… peraltro evidenziata dal fatto che il padre ebbe un primo infarto a 35 anni e morì a 43.

Fixx ne era ovviamente ben consapevole. Ma era sicuro dei suoi sforzi. Era sicuro che il running gli avrebbe impedito di fare la stessa fine.

Qualcuno ha detto che, infondo, non aveva tutti torti: ha vissuto nove anni in più del padre…

Nessuno mette il DNA in un angolo

Insomma: per quanto noi ci si adoperi “registrare” la nostra vita e ci si doti dei migliori mezzi a disposizione, restiamo quello che siamo in base al DNA.

Niente e nessuno potrà cambiare questo aspetto; nemmeno la volontà più ferrea, ahimé.

Credo, quindi, che la nostra vita (lavorativa e non) debba in primis partire da qui: ciò che siamo, il nostro essere intimo. Le nostre forze e le nostre debolezze… Senza cercare di convincerci che possiamo diventare altro — grazie a uno strumento o una prassi o un modo di essere più o meno forzato.

Peraltro, ci sono due ottime e pratiche ragioni per far sì che sia così:

La prima, è che noi siamo sempre disponibili (come diceva Francesca Woodman parlando della sua attitudine all’autoscatto) ed è quindi più facile partire da noi stessi: non dobbiamo inventarci nulla.

La seconda ragione, è che alla fine la vita vince sempre — nel bene e nel male:

Beh, la vita ha uno strano modo di sorprenderti alle spalle, quando pensi che tutto sia a posto e che tutto vada per il meglio.
E la vita ha uno strano modo di venire in tuo aiuto, quando pensi che tutto ti stia andando storto e che tutto ti esploda in faccia.

(Alanis Morrisette, “Ironic”)

[1] http://www.marathonandbeyond.com/choices/emmett.htm

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