Lavoro,  Riflessioni

Reggere la pressione

Che si tratti di una situazione imprevista, di una telefonata di troppo, di una critica pungente, o di tante altre cose (ho di sicuro reso l’idea), si potrebbe dire che “reggere la pressione” sia un attributo fondamentale per cavarsela nella vita di tutti i giorni, professionale o no che sia. Il mondo in cui tutte le cose vanno esattamente come auspichiamo e gli imprevisti sono assenti, è ovviamente un mondo che non esiste.

Nel mio piccolo, anche io ho sperimentato situazioni in cui la pressione non era facile a reggersi. Come quando mi sono trovato in Francia per un audit, e mi è scoppiato il COVID (sintomatico, quindi con febbre sopra 38). Da qualche giorno mi preparavo a pianificare la quarta dose, ma… non ho fatto in tempo: ho cominciato a tossire sull’aereo. “Hai gli occhi da febbre!”, mi ha detto la collega che era con me… E infatti, la sera arrivato in albergo, ecco la sorpresa (il test positivo).

Cosa fare?, sia per l’attività in sé che per me stesso?

Si vive insieme, si muore da soli

Si tende a pensare che reggere la pressione sia un problema del singolo soltanto: quanto sono larghe le tue spalle?, quanto sei in grado di sopportare?, dove è collocata la tua asticella?

Beh, è un errore.

Come dice (tra gli altri) un pezzo dei Pink Floyd:

Together we stand, divided we fall.

Siamo animali sociali – perché così è stato cablato il nostro DNA, in decine di migliaia di anni di Homo Sapiens – e la nostra capacità di reggere la pressione dipende anche dal supporto esterno che ci viene fornito: dal gruppo e/o dal capobranco. Che sia l’azienda, gli amici, la famiglia – poco importa.

Se qualcuno dunque viene a chiederti “ma tu reggi la pressione?”, la domanda giusta è: “ma tu sei in grado di mettermi nelle condizioni giuste per riuscirci?”.

Nel caso di cui sopra, ho condotto l’audit da remoto… sigillato nella mia camera d’albergo, a poche centinaia di metri dall’azienda. Con quella santa donna della mia collega che, dalla stanza a fianco, partecipava alla verifica; e tutte le mattine mi portava la colazione, lasciandola fuori dalla porta.
Certo, non era una passeggiata: alla fatica di questo tipo di situazione (perché un audit remoto è faticoso, e chi l’ha provato lo sa), si aggiungeva la febbre che al pomeriggio saliva… ma non c’era modo di fare diverso.

Altri al posto mio avrebbero forse fermato tutto e chiesto di essere rimpatriati (!), però esiste anche un’etica del lavoro: se si può in qualche modo ultimare l’attività e non ci sono vincoli esterni, lo si fa. Specie se hai con te una collega che è tanto brava quanto comprensiva (grazie Silvia!).

Together we stand, divided we fall.

Non dimentichiamolo.

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