Riflessioni

Leo Fender: quando l’approccio vince sulle competenze

Nella mia carriera di “chitarrista amatoriale”, ho avuto (ed ho tutt’ora) diversi strumenti Fender.

(Con la mia band mentre suono “Kate”, la mia Stratocaster color “fiesta red”.)

Del resto, gli strumenti ideati da Leo Fender sono innumerevoli e famosissimi. Se vi dicono qualcosa i nomi di Jimi Hendrix, Eric Clapton, Mark Knopfler e David Gilmour, capirete come mai la Stratocaster (lanciata nel 1954) sia probabilmente la chitarra più popolare, più suonata e più copiata della storia. Ed è persino un’opera d’arte esposta al MoMa!

Non si tratta certo di un caso isolato, nella storia di Fender: vale la pena citare anche la Telecaster (1950) e il Jazz Bass (1960), non escludendo amplificatori come il Bassman, e pianoforti elettrici come il Rhodes.

Un contabile digiuno di musica

E tutto questo nacque dalla mente fervida di Leo Fender, ossia un uomo che non sapeva assolutamente suonare la chitarra. Non sapeva fare né un giro di Do, né una semplice accordatura.

Tra l’altro, Leo Fender non aveva nemmeno un’estrazione tecnica: era un ragioniere.

Se non avesse fatto quello che ha fatto, qualcuno avrebbe potuto apostrofarlo con un: “Ma tu, di chitarre, cosa ne capisci??”.

Eppure…

Tre elementi

Nel mio piccolo, e leggendo la storia di questo grande personaggio (i riferimenti sono a fine articolo), penso di poter individuare tre aspetti-chiave del suo successo.

Tutti di natura esclusivamente caratteriale:

1. Aveva coraggio

Quando perse il suo lavoro di contabile per colpa della Grande Depressione, Fender non fu solamente capace di rialzarsi, ma lo fece anche in modo audace.

Nel 1939 aprì il “Fender Radio Service”, un negozio di vendita e riparazione di articoli elettronici.

Cosa c’entrano la vendita e riparazione di radio e amplificatori, con le competenze di ragioniere? Nulla di nulla! Ma l’elettronica era la sua passione.

E fu lì, nel retro di quel negozio, che alla notte predisponeva i prototipi dei suoi futuri capolavori.

Solo una cosa era in grado di spaventarlo: la paura delle malattie. Verso la metà degli anni ’60, infatti, vendette l’azienda al colosso CBS, perché pensava di essere gravemente malato e di non potersene più occupare. Non era vero: guarì perfettamente, e poi fondò la G&L.

2. Non era mai soddisfatto

Leo Fender possedeva una curiosità vorace, e questo aspetto lo portava a cercare di migliorarsi senza sosta. Ricorda la moglie:

Era una spinta incredibile e mai paga. C’era sempre qualcosa in più, e ancora, e ancora… E allora non era mai del tutto contento. Ogni cosa che faceva, doveva essere sempre un po’ migliore rispetto alla precedente.

I pick-up (o magneti) della Stratocaster sono un esempio. In quei tempi, le chitarre elettriche ne avevano due. Freddie Tavares (vedi sotto) ricorda che Fender disse:

Mettiamone tre!

Due è buono, ma tre li ammazzerà tutti!

Inutile dire che questa scelta regalò alla Stratocaster una versatilità incredibile, tale da farne strumento principe nel rock come nella disco music passando per il blues e per il funk.

3. Sapeva ascoltare e delegare

Benché Fender fosse noto per essere un lavoratore tanto indefesso quanto solitario, sapeva anche ascoltare.

Tra i suoi collaboratori più stretti, per esempio, c’era Freddie Tavares: un bravissimo chitarrista, noto per l’introduzione “uoooaaaaing!” della sigla dei cartoni Looney Tunes.

Fu lui a convincere Fender a realizzare uno smusso sulla parte alta della cassa nella Stratocaster, ritenendo che avrebbe fatto aderire meglio lo strumento al corpo del suonatore. E non posso che confermare quanto ciò sia vero!

(Il retro di “Kate”.)

Poi c’era Forrest White: questi sì, un ingegnere, cui Fender affidò l’organizzazione dei reparti produttivi. Quando fece la prima visita in fabbrica, all’inizio degli anni ’50, White ricorda che:

Regnava un casino bestiale. Non c’era uno straccio di pianificazione, e tutto era buttato lì a casaccio… perché Leo era un ragioniere, non un ingegnere. Gli dissi che ero d’accordo a salire a bordo, ma ad una condizione: dovevo avere carta bianca per poter fare quello che io ritenevo andasse fatto. Altrimenti, non se ne parlava. E fu proprio così: Leo progettava le chitarre, ma ero io a mandare avanti la compagnia.

4. Pensava in modo proattivo

Fender era anche ossessionato dall’idea che i suoi strumenti si potessero riparare facilmente: un aspetto che dimostra il suo ragionare proattivo.

Basti pensare al modo con cui il manico si attacca al corpo.

I concorrenti (es. Gibson) usavano la colla; lui invece optò per semplici viti, come si vede nella foto più sopra. Era esteticamente discutibile?, forse sì… ma se il manico si rompeva, bastava un pezzo di ricambio e un cacciavite.

Tra l’altro, questo approccio aprì la strada alla possibilità di customizzare lo strumento sostituendone le sue parti (corpo, manico, magneti, ponte…), altro aspetto che contribuì enormemente alla sua popolarità.

In definitiva

Innovare richede una mente coraggiosa, mai paga, aperta, e proattiva.

Non bastano le competenze tecniche. Anche perché queste si possono acquisire più o meno facilmente, mentre una forma mentis è molto, molto più difficile da conseguire.

Gli uomini tecnicamente competenti sono indispensabili per industrializzare il prodotto e far decollare il business; ma da soli non garantiscono né il successo né la scommessa sul tempo.


Fonte: Tony Beacon e Paul Day, “The Fender book”, Balafon 1992.

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